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Intervento del segretario Sicet Esposito al convegno di Cisl e Filca sul futuro dell'edilizia

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Volendo descrivere sinteticamente la situazione dal punto di vista del Sicet direi che nonostante la continua crescita della povertà nel nostro paese (con quasi la metà delle famiglie in povertà assoluta che vivono in affitto) ci troviamo di fronte ad una gravissima carenza di soluzioni abitative per coloro che più ne hanno bisogno. Questa situazione di “emergenza strutturale” (un ossimoro che la dice lunga sulla gravità della questione abitativa) proviene da molto lontano, si pensi per esempio allo spopolamento delle aree interne e alla continua concentrazione della popolazione nelle aree urbane che evidentemente è un fenomeno storico che si ripropone a ondate cicliche e che riguarda l’intero mondo.

Per tornare al qui e ora basta ricordare che attualmente in Italia ci sono oltre 10 milioni di abitazioni inutilizzate con un’offerta di case che però si riduce drasticamente nei grandi centri facendo lievitare i prezzi. Limitando invece l’analisi alle politiche abitative direi che si tratta di un processo iniziato nel 1998, da un lato con la liquidazione dei fondi ex Gescal che finanziavano l’intero comparto dell’Edilizia Residenziale Pubblica e dall’altro con la totale liberalizzazione del mercato delle locazioni private da parte della legge 431. Ovviamente nell’ultimo quarto di secolo sono poi intervenuti molti altri fattori che hanno aggravato la situazione portandola all’attuale paradosso per cui rischiamo di essere un paese con “tante case senza persone e tante persone senza casa”.

Ad esempio a partire dal 2001: 1) la cartolarizzazione per la vendita degli immobili degli enti previdenziali ha contribuito all’aumento incontrollato dei canoni di mercato sottraendo un patrimonio immobiliare che faceva da “cuscinetto” fra l’edilizia residenziale pubblica e il mercato privato; 2) la devoluzione della competenza legislativa alle Regioni in materia di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP) non accompagnata dalla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e quindi la mancata definizione degli obblighi di finanziamento che sarebbero rispettivamente in capo allo Stato e alle Regioni ha consentito un grave e diffuso disimpegno istituzionale rispetto agli obblighi di servizio.

Volendo poi dare uno sguardo al più recente passato direi che alla pioggia di fondi e incentivi fiscali messi a disposizione dopo la pandemia non corrisponde un’inversione di tendenza per il rilancio delle politiche abitative in direzione di una maggiore protezione sociale. Non mancano stanziamenti appositamente dedicati all’ERP (come il fondo complementare al PNRR o la riprogrammazione in favore dell’ERP dei residui inutilizzati per edilizia convenzionata e agevolata previsti dal Decreto interministeriale 193/2021) ma evidentemente si tratta solo di boccate d’ossigeno per un comparto con un patrimonio ampiamente vetusto e che a causa degli scarsi finanziamenti ricevuti in precedenza sconta un grave ritardo nella manutenzione degli alloggi.

Vi sono poi altri strumenti come il PNRR che prevede misure ben più corpose ma che di rado si traducono in un ampliamento dell’offerta per i ceti meno abbienti o in manutenzioni del patrimonio ERP esistente (comprese quelle straordinarie per il contrasto alla povertà energetica che naturalmente, così come la povertà genericamente intesa, si annida nelle periferie). L’esempio più eclatante in questo senso è quello del SUPERBONUS che, stando a quanto riportato dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, finora ha riguardato le case popolari soltanto in 2 casi su 1000. Peraltro gli interventi hanno riguardato per il 38% le abitazioni unifamiliari e per il 16% gli edifici con massimo quattro unità immobiliari e più in generale nel settore dell’edilizia privata è mancata una vera selezione degli interventi in base a considerazioni di ordine sociale e agli obiettivi di tutela ambientale.

In particolare sarebbe servita una modulazione dello sgravio fiscale in base ai redditi delle famiglie che avrebbe reso la misura seriamente improntata a criteri di protezione sociale e nel contempo incrementato l’investimento complessivo mediante una parziale mobilitazione del risparmio delle famiglie più ricche. Cosa peraltro più che giustificata dal risparmio in bolletta e dall’incremento di valore dell’immobile che viene realizzato con l’efficientamento energetico. Rispetto poi all’obiettivo di ridurre il più possibile le emissioni inquinanti in atmosfera - non soltanto lo sgravio del 110% non è stato concentrato in favore dei condomini, delle prime case e degli immobili locati ad uso residenziale - ma neppure si è tenuto conto delle classi energetiche più basse né sono stati preventivamente individuati gli immobili per i quali sarebbe stato più opportuno promuovere interventi di demolizione e sostituzione.

Considerata poi la stima di circa 8 milioni di edifici che resterebbero in classe energetica G e F e al tempo stesso gli obblighi previsti dalla nuova Direttiva UE per le case green di provvedere entro il 2033 al passaggio alla classe E di almeno il 15% di questi edifici, il superbonus appare come una grande occasione sprecata. Probabilmente sarebbe necessario replicare per altre 5 volte l’investimento pubblico già effettuato visto che con gli oltre 75 miliardi già spesi si è provveduto alla riqualificazione energetica del 3% degli edifici. Ma, considerato il deficit già accumulato dallo Stato italiano, diventa veramente difficile trovare una soluzione senza intaccare il risparmio delle famiglie, che peraltro soltanto per quanto riguarda la liquidità accumulata sui conti correnti bancari e postali ammonta a oltre 1200 miliardi. Pertanto serviranno più che mai incentivi per l’efficientamento energetico e antisismico con bonus graduati in base alla ricchezza delle famiglie.

Peraltro, poiché la nuova direttiva UE prevede proprio l’esenzione dagli obblighi di efficientamento per gli alloggi sociali, si pone il problema di ulteriori stanziamenti per l’ERP. Da questo punto di vista non possiamo che condividere l’idea di un fondo strutturato e appositamente destinato all’efficientamento delle case popolari. Idem rispetto alla proposta della Filca di utilizzare a questo scopo lo stesso impianto normativo varato per la ricostruzione post sisma 2016: perché dobbiamo essere pragmatici e se ha funzionato per la ricostruzione nell’Italia centrale possiamo riutilizzarlo su tutto il territorio nazionale per il patrimonio ERP.

Rispetto invece alle altre misure previste dal PNRR per l’inclusione e la coesione sociale resta il fondato timore che ben pochi alloggi a canone sociale verranno realizzati. Sicuramente questo è il caso del PINQUA, il piano innovativo per la qualità dell’abitare che a fronte di un investimento complessivo di 2,8 miliardi porterà alla realizzazione di 16.500 alloggi di cui soltanto un 20% sarà destinato alla locazione a canone sociale che viceversa sarebbe quella da sostenere maggiormente in considerazione di una domanda inevasa che riguarda circa 650.000 famiglie. Si tratta di un rischio che grava parimenti su tutti i progetti di rigenerazione urbana perché, essendo previsto sistematicamente un meccanismo di cofinanziamento pubblico-privato, è del tutto logico e naturale che gli investimenti vadano soprattutto nella direzione maggiormente remunerativa sotto un profilo strettamente economico. Processo spesso favorito dagli enti pubblici territoriali che sembrano molto interessati a restituire attrattività alle città da un punto di vista commerciale e poco propensi al radicamento sul loro territorio dei nuclei familiari economicamente e socialmente più fragili.

Proprio per questo servirebbe una legge quadro per la rigenerazione urbana a sostegno dei programmi di ERP di interesse nazionale e che preveda:

1) una percentuale minima delle superfici realizzate obbligatoriamente destinata all’ampliamento del patrimonio di ERP;
2) l’istituzione di una banca dati del patrimonio abitativo degradato, pubblico e privato, da utilizzare in tempi rapidi per incrementare l’offerta di case popolari.

Passando invece alle considerazioni conclusive ci terrei a sottolineare due aspetti. Il primo riguarda la necessità di completare al più presto l’architettura istituzionale definita dal titolo quinto della Costituzione individuando tutti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e di provvedere in questa sede anche a definire i livelli minimi del servizio abitativo. Perché a distanza di oltre vent’anni dalla riforma del titolo quinto della Costituzione non possiamo più assistere alla mancanza di una fattiva collaborazione fra Stato e Regioni che alla fin fine pagano i cittadini, soprattutto quelli più bisognosi. Infine serve un vero e proprio cambio culturale che ci consenta di recuperare una visione realmente indirizzata a tutela dell’interesse pubblico e del bene comune.

Non dubitiamo della necessità di sostenere lo sviluppo economico e produttivo attraverso il sistema delle imprese e comprendiamo l’esigenza di trovare soluzioni per dare una risposta ai circa 19 miliardi di crediti incagliati. Ma d’ora in avanti servirà anche un maggiore ritorno dell’investimento pubblico sul piano sociale e della protezione ambientale. E pensiamo anche che questo processo passa necessariamente attraverso un’azione politica consapevole della necessità di un vero e costante coinvolgimento dei cittadini e dei corpi sociali intermedi, a cominciare dai sindacati. Democrazia, inclusione e coesione sociale, sviluppo economico e sostenibilità ambientale sono tutti obiettivi che presuppongono una partecipazione maggiore in vista di una più equilibrata conciliazione dei diversi interessi in gioco.

CALENDARIO RISCALDAMENTO 2022/2023

Per l'inverno 2022/2023 è in vigore il calendario come definito dal Decreto Ministeriale 383 del 6-10-22

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